ma l'Ebreo è sempre là".
PROVERBIO YIDDISH
.
"Impossibile restare indifferenti alla lettura di
un romanzo di Giuseppe D’Ambrosio e anche questo ultimo suo lavoro non fa
eccezione.
Ci
troviamo ad attraversare un impetuoso flusso che potremmo definire di “memoria”
dalle differenti correnti che ci conducono ad approdare, talvolta, ma non
sempre, nell’ isola dell’infanzia e della giovinezza dell’autore, dove vengono
svelati ricordi, immagini, voci, dei genitori, dei fratelli, degli amici, dei
compagni di scuola, tutti, mai dimenticati.
Il
romanzo è costruito su differenti piani, ma collegati da un filo rosso che
occorre saper afferrare per poter tenere l’orientamento nel fantasmagorico
labirinto della scrittura, si inaugura così fin dalle prime battute questo
gioco al perdersi e ritrovarsi che prosegue senza interruzione, appena un
attimo prima eravamo seduti a conversare con un improbabile personaggio ebreo
in un quartiere della vecchia Milano e l’istante successivo eccoci negli assolati
e gioiosi vicoli e piazze della amata Acquaviva!
Questo
déplacement, però non si limita alla dimensione dello spazio, ma viene a
toccare anche quella del tempo, esattamente come accade in certi processi di
pensiero caratterizzati da un potente metonimia.
Il
lettore si trova dinanzi a vertiginosi “punti di fuga” che potrebbero evocare
non solo certe opere di pittura astratta, ma soprattutto alcuni pezzi musicali,
barocchi e jazzistici ad un tempo, per cui l’intero romanzo è pittorico e
musicale contemporaneamente, come ibridato con una suprema “maestria”.
Giuseppe
D’Ambrosio ha un grande pregio, ovvero, sa essere di una semplicità disarmante
e quasi simultaneamente, come tutti i veri artisti, di una sofisticata
eleganza, terrestre e aereo nello stesso tempo, così in questo straniante
romanzo, straniante perché famigliare e alieno, solare e lunare, di natura
cangiante e sfaccettata fino alla vertigine.
Lo
stesso autore a tratti sembra invitarci a seguirlo nelle sue epiche
attraversate, affascinanti quelle sotto la neve, su cui ritorneremo, della
città di Milano, rigorosamente, a piedi, camminando, e questa camminata
rappresenta il momento, il tratto metaforico, di condensazione, di simbolo, del
“movimento” a cui il lettore deve sapersi unire per godere appieno di questa
opera particolarissima.
Il fatto
che lo scrittore venga spesso scambiato “per un ebreo”, potremmo definirlo un
vero e proprio focus del romanzo, invenzione letteraria che giunge a far
penetrare fin sotto la pelle l’unheimliche, l’in-domestico, la stranianza,
l’estraneità, in cui D’Ambrosio è di volta in volta, di libro in libro, un vero
e affermato maestro.
Quindi “Un
ebreo nella neve”, così, il titolo che richiama l’incredibile capitolo che
forse riassume in sé tutto il senso del romanzo, capitolo di una straordinaria
e commovente bellezza, in cui lo scendere della neve diviene quasi tattile, ci
invade fisicamente, animando il paesaggio urbano, divenendo un personaggio di
candida purezza.
Quasi
magica la neve, che viene a portar via la tristezza, la delusione, la grande
malinconia di cui il protagonista è intriso, mentre abbandona una casa, per lui
ostile, preferendo inoltrarsi nella notte e in questa neve celeste, che a poco
a poco lo ricoprirà completamente.
Tale è
il momento di sintesi del libro, momento che sta a indicare come il sapersi
staccare, il saper lasciare, salpare, mollando ogni ormeggio, abbandonando così
“la terra ferma” delle sicurezze e delle convenzioni di qualsiasi natura esse
siano, ovvero il saper trovare “l’ebreo” in ciascuno di noi, rappresenti una
chance impareggiabile, da non rifiutare, mai, vincendo quella paura che talora
costringe la nostra nave a stare ferma in porti sicuri, ma opprimenti quella
parte della nostra natura più intima che aspira incessantemente a compiere quei
passi nel profondo della notte e nella neve più fitta per poter andare incontro
al proprio vero destino."
MARIA THERESA VENEZIAon www.books.google.com